La Natura

Per gli amanti della natura c’è il «Moso», una vasta area agricola solcata da rogge e canali, attraversata da ombreggiate strade poderali, che garantiscono piacevoli e rilassanti camminate, immersi nel verde circondati dai rumori della natura, lontano dai circuiti assordanti della vita urbana.
Il Moso: con questo nome anticamente veniva definita la maggiore palude cremasca, presente ancora nel secolo scorso, seppure in gran parte risanata dalla secolare opera di bonifica dei monaci benedettini.
Le acque della palude occupavano una depressione di modesta entità ma di considerevole estensione, inframmezzate e rotte da isolotti, argini o semplicemente da banchi di sabbia e argilla che contribuivano a spezzettare il bacino in piccoli e separati stagni. L’esistenza del Moso era congiunta alla presenza di abbondanti risorgive situate poco più a monte del suo margine settentrionale, nei territori di Torlino, Pieranica, Azzano, Farinate, e Trescore Cremasco. È facile immaginare come quelle acque di tracimazione, seguendo la pendenza del terreno incappassero in questa bassura e la allagassero nei punti più depressi. La permanenza della palude fu poi facilitata dalla connotazione del suolo, ormai quasi totalmente impermeabilizzato dalle argille. Tra gli immissari del Moso il maggiore fu l’Acqua Rossa, di probabile formazione spontanea. Degli altri, ormai oggi ampliamente disciplinati dall’uomo, si conserva ancora l’antica denominazione: Remortizzo, Navicella, Fontanile, Oriola, Oriella, Ora e Remerlo. Il bacino lacustre godeva di un lento ma continuo ricambio che nei periodi di piena causava vere e proprie inondazioni. Emissario principale del Moso fu il Cresmiero ma anche l’Acqua Rossa contribuì a sfogare una parte di quei ristagni, portando le acque all’Adda seguendo all’incirca l’attuale percorso. In una relazione del 1791, ripresa dallo storico locale Sanseverino F. nelle sue notizie statistiche ed agronomiche, si fa ascendere ancora «a 25.000 pertiche l’estensione del Moso, giacché essendo questo quasi per intero di proprietà comunale, non si era fatta operazione alcuna per compiere il prosciugamento delle 12.000 pertiche che più non si trovavano sott’acqua. Ma quando poi in tempo del cessato Regno Italico le comuni furono indotti a vendere i beni incolti, allora, dai nuovi proprietari, tratti di terreno furono ridotti a coltura e quelle sterili lande si cangiarono non solo in risaie e in prati, ma in gran parte furono coltivate a cereali e a lino. I nuovi campi furono circondati e tagliati da gran piantagioni di gelsi… Altri parziali asciugamenti si eseguirono in seguito dall’industria di parecchi possessori».
Tuttavia c’era anche chi non si trovava d’accordo sull’opera di prosciugamento della palude. Primi fra tutti erano i proprietari dei terreni attraversati dall’Acqua Rossa, che temevano di non poter disporre a sufficienza di acqua per l’irrigazione dal momento che il Moso, fungendo da gran serbatoio, poteva assicurare una notevole quantità anche nei periodi di siccità. Così, tra le ultime vicende, la parte sud occidentale ancora nel secolo scorso, grazie alla qualità del terreno si trovava invasa dalle acque ed estesissime risaie circondavano il villaggio di Campagnola, Casaletto Vaprio, Cremosano e Farinate. Ma ecco giungere verso la fine dell’800 il grandioso progetto di un canale del fiume Adda ad impinguamento dei cavi di irrigazione della provincia di Cremona che avrebbe tagliato il Moso nella sua parte mediana per quasi tutta la lunghezza. Il canale, denominato «Marzano» e in seguito «Vacchelli», aveva lo scopo di accrescere la portata d’acqua dei navigli a tutto beneficio dei fondi cremonesi. Con questa gigantesca impresa fu dato il colpo di grazia agli stagni del Moso, avviato in tal modo a uniformarsi al resto della campagna, conservando solamente le scarpate e il fondale torboso, testimonianza del suo selvaggio passato